Riflettere per comprendere i fenomeni globali

A vent’anni dall’11 settembre occorre riflettere e rivolgere un pensiero sincero di commemorazione nei confronti delle vittime, e dei loro parenti, di questo arco temporale iniziato con l’attentato al World Trade Center (11 Settembre 2001, che provocò la morte di circa 3000 persone e 6000 feriti) e “terminato” il 31 Agosto 2021, giorno ufficiale dell’abbandono da parte degli eserciti Nato e Stati Uniti dell’Afghanistan.
Secondo i numeri la guerra in Afghanistan è costata agli Stati Uniti circa 8 trilioni di dollari, mentre il bilancio di vite umane tra soldati e civili è di 1 milione. Un risultato catastrofico se volessimo fare una mera operazione matematica che tenga conto degli obiettivi raggiunti.
Infatti negli ultimi giorni abbiamo assistito alla ritirata-fuga dei soldati Usa e ai tentativi biblici di esodo da parte di alcuni abitanti spaventati dal ritorno al potere dei Talebani, sponda “studenti del Corano”, guidati da Mohammad Hassan in veste di premier e da Hibatullah Akhundzada come guida religiosa.

Un salto indietro nel tempo di vent’anni e la rinuncia da un giorno all’altro a tutto quanto conquistato con fatica e sacrificio; si pensi ad esempio al diritto all’istruzione che in questo arco temporale era stato esteso alle donne e ai fenomeni culturali riguardanti l’obbligo di indossare il burqa.
Questa la narrazione che vien fuori da una semplice lettura dei dati ma che potrebbe non reggere, soprattutto se vogliamo analizzare bene il quadro che si è delineato in questi anni, adottando una prospettiva forse laterale ma sicuramente più esperta.
Per questo ho chiesto aiuto al dottor Emanuel Pietrobon, esperto di geopolitica, terrorismo e guerre religiose, a cui ho posto alcune semplici domande per provare ad avere una visione dei fatti più approfondita.
Qui di seguito domande e risposte!
Buona lettura.
Quali sono stati i risvolti dell’11 settembre: cos’è cambiato e quali settori sono stati stravolti?
L’11/9 è stato lo spartiacque del nostro secolo. Tutto è cambiato a partire da quel momento e nulla tornerà mai come prima.
Sebbene venga ricordato come il casus belli della Guerra al Terrore, l’11/9 ha segnato anche l’inizio della transizione multipolare, l’avvio della lunga ascesa globale della Cina, la nascita del “secolo delle emergenze” e, non meno importante, la fondazione dei regimi di sorveglianza di massa.

Pochi si sarebbero aspettati che l’eccezione sarebbe divenuta la norma, che il Patriot Act sarebbe stato soltanto il principio, che il terrorismo sarebbe stato utilizzato come pretesto per trasporre in realtà 1984 di George Orwell.
Il mondo post-11/9, in breve, è diventato più controllato (e lo sarà sempre di più).
Ci sono varie teorie alternative sull’11 settembre che gridano al complotto o alla false flag. Possono esserci degli spiragli di verità?
Dietro ogni teoria del complotto c’è sempre un po’ di verità, questo è innegabile. Le teorie del complotto circolano soprattutto in occasione delle guerre e riguardano la fondatezza dei loro casus bellis. Oggi sappiamo che la corazzata USS Maine non fu affondata dagli spagnoli, anche se gli americani ne profittarono per invadere Cuba. Oggi sappiamo che la guerra del Vietnam fu il frutto di una clamorosa manipolazione della realtà fattuale: l’incidente del Golfo di Tonchino.
Dell’11 settembre sappiamo che gli Stati Uniti furono avvertiti dai servizi segreti sauditi (e da altri) dell’elevata probabilità di un attentato sul loro suolo nell’estate 2001 e che poco e nulla fu fatto per evitare che l’allarme divenisse realtà. Sottovalutazione della minaccia? Forse, probabile. Del resto, chi se l’aspettava un attentato del genere? Non credo che gli Stati Uniti fossero psicologicamente preparati ad accettare che una forza non-statuale come Al Qaida disponesse di una simile inventiva e fosse guidata da un tale odio.
Se vogliamo fare della dietrologia, anche se dietrologia certo non è, credo che sia innegabile il valore dell’11 settembre. Se non ci fosse stato, gli Stati Uniti avrebbero dovuto inventarlo: ha permesso loro di indebolire in maniera semipermanente dei rivali di media dimensione (Siria), di abbattere regimi storicamente nemici e capaci di incidere a livello mondiale (Saddam Hussein, Muammar Gheddafi), di riportare l’Egitto sotto la propria ala e, in definitiva, di riscrivere la geografia del potere mediorientale a proprio favore.
Come si sono comportati i principali competitor americani dopo l’11 settembre?
I grandi concorrenti dell’America hanno approfittato dei grandissimi margini di manovra che furono loro concessi dall’amministrazione Bush per reprimere il dissenso interno e mettere in sicurezza la loro integrità territoriale.
La Cina poté combattere con forza i separatisti Uiguri dello Xinjiang, eliminando la principale minaccia alla propria esistenza.
La Russia poté addomesticare la ribelle Cecenia, allontanando a tempo indefinito lo spettro di un’implosione in stile sovietico.
Azioni che, involontariamente e indirettamente, hanno gettato le basi per la transizione da un sistema unipolare ad uno multipolare, che oggi è più visibile e tangibile che mai.
In un tuo recente articolo “11 settembre vent’anni dopo il terrore è ancora qui” hai fatto un resoconto di questi vent’anni di Guerra al Terrore degli Stati Uniti. Che cosa dobbiamo aspettarci adesso?
Dobbiamo aspettarci un aumento della conflittualità tra i blocchi, dove per blocchi si intendono Occidente e Oriente. In mezzo a questi due blocchi, come è noto, si trova un’area sterminata, che il defunto geopolitico Zbigniew Brzezinski aveva ribattezzato “Arco della crisi”.
Quest’area comprende il Medio Oriente, il Caucaso, l’Asia centrale e parte dell’ Indosfera. Qui, più che altrove, si potrebbe assistere a dei bruschi scarichi di tensione sotto forma di insorgenze, conflitti a bassa intensità ed accresciuta incidenza terroristica.
L’abbandono dell’Afghanistan da parte dell’Occidente avviene in questo contesto: scaricare la patata bollente alle potenze regionali allo scopo di aggravare la condizione già precaria dell’Arco di crisi, spostando su di loro gli oneri di gestione di un teatro che è sì importante, ma che è anche tremendamente costoso – sia in termini umani sia in termini economici.
Attendiamoci una maggiore concentrazione a stelle e strisce nell’Indo-Pacifico, vera area di scontro degli anni a venire. Si gioca tutto tra Taiwan e la Collana di Perle.
In quest’ottica direi di tenere in considerazione il viaggio di Kamila Harris, vice presidente degli Stati Uniti, che lo scorso 22 Agosto si è recata in visita a Singapore e in Vietnam.
L’Europa punta ad una gestione più unitaria del post-abbandono dell’Afghanistan o lascerà libero spazio alle manovre individuali?
Partiamo da questo presupposto: l’Europa unita è un mito. Consideriamola in termini di sistema solare: c’è un Sole (la Germania), dei pianeti (Francia, Italia, Polonia, Paesi Bassi, ecc) e i loro satelliti (come l’Austria, la luna tedesca). I pianeti possono interagire tra loro, operare in concerto o in rivalità, mentre i satelliti si adattano ai movimenti del pianeta di appartenenza.

L’Europa, in quanto disunita, non ha una visione unanime sull’Afghanistan e ci vorrà del tempo affinché avvenga la convergenza. Molto dipenderà da ciò che accadrà in Germania, il Sole di questo sistema, la cui visione plasmerà le tendenze di tutti gli altri.
L’Italia, in questo momento e in questo contesto, potrebbe fare molto (come spiega in questo articolo L’Italia alla prova del grande gioco 2.0). I talebani hanno espressamente rivolto al nostro indirizzo un invito al riconoscimento, evidenziando l’esistenza di legami culturali che affondano le origini nel passato. La Francia, almeno in apparenza, ha rigettato ogni possibilità di riconoscimento.
Lo so, è brutto da dire ed è ancora peggio ascoltarlo, ma i talebani esistono, sono al potere. Sono stati messi lì proprio dagli Stati Uniti (accordo di Doha). Cosa vogliamo fare? Far finta che non esistano? Russia e Cina stanno già muovendo i loro pedoni. Idem la Turchia (con l’aiuto del Qatar). Non agire equivale ad autoescludersi dalla pivotale partita per l’Afghanistan (terre rare, ma non solo) e l’Asia centrale.
Ci sono speranze per il Medio Oriente?

Il Medio Oriente è frammentato, caotico e bellicoso, e tale resterà negli anni e nei decenni a venire. Quella del Medio Oriente è una condizione di natura cronica, soltanto in parte sanabile, promanante dal fatto di essere il centro dell’Arco di crisi e il crocevia degli interessi delle principali potenze regionali e mondiali. In nessun’altra regione del pianeta vi è una simile concentrazione e sovrapposizione di agende contrapposte.
Dall’imperialismo a stelle e strisce al multipolarismo
Oggi siamo in piena epoca multipolare, con l’affermazione di nuovi centri di potere.
In primis la Cina che si pone come principale competitor americano in ottica geopolitica aumentando la sua sfera d’influenza: in ambito commerciale attraverso forti investimenti soprattutto in Asia Centrale e Africa al fine di definire nuove rotte (vie della seta), in ottica politica promuovendo il suo modello economico.

Gli Stati Uniti sembrano uscirne ridimensionati e da qui ripartono. L’aver abbandonato l’Afghanistan non può essere visto come una disfatta ma una strategia per meglio concentrare le energie in altre aree del mondo più determinanti a contrastare il colosso cinese.
In questo scenario così delineato, ci si augura che l’Europa possa fare da contraltare ai nuovi centri di potere che si stanno creando, cercando di non subire gli eventi ma di ritagliarsi il giusto peso nei giochi per gli equilibri e le sfere di influenza.

Infine l’Italia deve avere il coraggio di porsi come capofila di una strategia sinergica con il resto dell’UE per affrontare le crisi che verranno, in primis il controllo dei flussi migratori. In seconda battuta, ma senza perdere tempo, dovrebbe sfruttare le opportunità di influenza che può avere in Medio Oriente facendosi promotrice di un dialogo con le altre potenze coinvolte (Russia e Cina) e i regimi locali, ed esercitare il suo “fascino” per attuare investimenti preziosi.
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